“L’uomo felice non scrive poesia”
(S. Freud)
L’opera poetica di Sylvia Plath
“Magari un giorno tornerò a casa battuta, sconfitta. Ma non finché riuscirò a trasformare il mio cuore spezzato in racconti, la mia sofferenza in bellezza” (dai Diari, anno 1950).
Penso sia inevitabile iniziare da qui, da questa frase scritta a diciotto anni, che è l’anticipazione di tutto, e insieme la poetica e il programma di vita di Sylvia Plath. E poi saltare alla conclusione, al giorno in cui alla fine “quel giorno” arriva, e tutto si sgretola, perde senso, sprofonda. Allora, alle prime luci dell’alba di lunedì 11 febbraio 1963, che è “quel giorno”, questa giovane donna bella, brillantissima, poeta già acclamata, madre di due bambini piccoli, entra nella loro camera, socchiude la finestra, lascia accanto ai lettini un bicchiere di latte e una fetta di pane e burro, poi esce, chiude la porta e la sigilla completamente dall’esterno con il nastro adesivo, entra in cucina, sigilla ermeticamente anche questa porta dall’interno, si inginocchia davanti al forno e accende il gas.
Perché?
Una sorta di prova generale c’era già stata: il 24 agosto del 1953, Sylvia – che, a causa di una diagnosticata depressione, attribuita da lei stessa a una serie di “insuccessi”, dal 29 luglio viene sottoposta a terapia ambulatoriale con elettroshock senza anestesia – approfitta dell’assenza dei familiari per rubare un flacone con circa 50 pillole di sonnifero, le inghiotte tutte, poi scrive in un biglietto “tornerò domani” e si nasconde nel fondo di un cunicolo in cantina, avendo cura di richiuderne accuratamente l’imboccatura con la catasta di legna che l’ostruiva prima. Dopo due giorni di inutili ricerche, mentre la famiglia è a pranzo, il fratello Warren sente dei gemiti: è Sylvia, salvata dal fatto di aver infine vomitato le troppe pillole inghiottite, che si dibatte nel cunicolo, una guancia profondamente ferita dallo sfregamento sul cemento del pavimento. Seguono ricoveri in clinica psichiatrica, con relative, inesorabili, terapia insulinica e, ancora e ancora, elettroterapia che nei tempi, paradossalmente, coincide con l’esecuzione dei Rosenberg e la fa sentire, come i Rosenberg appunto, bruciata in un olocausto. Accanto a lei, amorevole, ma come sempre distante ed esigentissima, Aurelia Schober, la madre. Il padre Otto (entrambi i genitori sono di origine germanica) è morto nel ’40 per le conseguenze di un diabete trascurato. “Ora non parlerò mai più con Dio”, è la decisione di Sylvia bambina alla morte del padre, vissuta come uno strappo e un abbandono che la poco affettiva Aurelia non riesce a ricucire né a sanare: mai, nella vita, Sylvia riuscirà a tollerare le separazioni né la costante distanza materna.
All’inizio del ‘54 è dichiarata guarita e può riprendere a vivere, a studiare (grazie a una borsa di studio) presso il prestigioso Smith College: recupera l’antica eccellenza accademica, è molto stimata dai professori, continua a pubblicare poesie e racconti sulle principali riviste letterarie e non. La sua esistenza sembra trovare finalmente un percorso sicuro, l’essenziale riconoscimento del mondo ha finalmente luogo, Sylvia guadagna in stabilità, anche se di sicuro non in serenità, e fortissima è la volontà di una personale “ricostruzione”. Il trasferimento in Inghilterra, il matrimonio con il poeta inglese Ted Hughes, la nascita dei suoi due bambini, le molte poesie pubblicate e i successi raccolti saranno in fondo soltanto tappe di una sorta di personale via crucis poetica incontro alla morte.
Certo, lo so: un poeta non è mai la sua biografia, e sarebbe profondamente ingiusto connettere in maniera diretta la poesia esigente e rigorosa di Sylvia Plath alla sua vicenda umana e poetica: Plath è un grande poeta: “non c’è che da leggere e non si potrà non scoprire di che cosa si tratta. Si tratta del miracolo per cui un io – puro soggetto della lingua – incarnato in un corpo di carne e sangue, lo trasforma (…) Ma di creazione si tratta, e come in ogni vera creazione – e vera creazione è quella poetica – accade l’alchimia del passaggio da una sostanza all’altra, fino all’oro puro di immagini che non sono di nessuno, perché sono di tutti – sono la risposta all’”io” del “tu” assoluto, l’altro preistorico, l’altro indimenticabile, incontrato nell’Ade da cui tutti veniamo (non andiamo) e molti di noi emergendo alla luce dimenticano. Non lo dimenticano i veri poeti, non lo dimentica Sylvia; la quale, anzi, vive per ricordare. In vita lei non fa che provare a ricreare in immagine le ombre della caverna.” (dall’introduzione di Nadia Fusini al Meridiano Mondadori). Eppure è lei stessa che nel suo romanzo autobiografico La campana di vetro in un certo senso mette a tema le sue stesse vicende, la sua stessa poesia, e ne fa il centro della sua esistenza di essere umano e di artista. Il romanzo esce un mese prima della sua morte, e quattro mesi dopo la separazione dal marito Ted Hughes, anch’egli poeta: Ted è Il Colosso della poesia omonima (1959), un uomo grande e pieno di fascino, un “predone nero” in grado di far sentire Sylvia la bambina che recupera il padre, e il suo corpo, e insieme di trascinarla in quel mondo erotico che le è così essenziale:
Ci vorrebbe altro che un fulmine/ Per fare tanta rovina./Di notte mi accoccolo nella cornucopia/del tuo orecchio sinistro, al riparo dal vento,/e conto le stelle e quelle color prugna./Il sole sorge da sotto la colonna della tua lingua./Le mie ore sono sposate all’ombra./Non tendo più l’orecchio per sentire il raschio di una chiglia/Sulle pietre nude dell’approdo.
L’anno dopo, ecco la “Lettera d’amore” (1960):
Non è facile dire il cambiamento che operasti.
Se adesso sono viva, allora ero morta
(…)
Albero e pietra scintillavano, senz’ombra.
La mia breve lunghezza diventò lucente come vetro.
(…)
Da pietra a nuvola, e così salii in alto.
Ora assomiglio a una specie di dio
E fluttuo per l’aria nella mia veste d’anima
Pura come una lastra di ghiaccio. E’ un dono.
Ma il dono, con la separazione da Ted, viene sottratto, ritirato, ripreso indietro da mani ignote; allora, la vita, senza Ted, non risulta più vivibile, e il dolore di vivere si ripresenta inesorabile come lo squarcio nella chiglia di una nave. Solo da qualche anno Sylvia è diventata cosciente della sua storia profonda: nel dicembre del ’58, dopo una seduta con la sua psicoanalista, la Dr.ssa Beuscher, scrive nel diario:
“Ieri una lunga, profondissima seduta che ha portato alla luce cose dolorose che mi hanno fatto piangere. Perché piango con lei e solo con lei? Sto vivendo una reazione di lutto per qualcosa la cui assenza ho cominciato ad ammettere solo da poco: l’amore materno. Niente di quello che faccio (…) può cambiare il suo modo di essere con me, che io vivo come una totale assenza di amore. (…) Ho perso prematuramente il padre e il suo amore; ce l’ho con lei per questo e sento che lei, dentro, è convinta che l’abbia ucciso io (il suo sogno in cui io ero una ballerina di fila, e lui se ne andava via in macchina e annegava). Ho sognato spesso di perderla e questi incubi infantili sono resistenti: l’altra notte ho sognato che inseguivo Ted in un enorme ospedale, sapendo che era con un’altra, entravo nelle corsie dei matti e lo cercavo dappertutto. Cosa ti fa pensare che fosse Ted? Aveva la sua faccia, ma era mio padre, mia madre.”
Insomma, dall’incubo infantile non si esce, e persino la poesia, l’arte, perdono piano piano la loro funzione salvifica, si disseccano come, appunto, “risucchiate da un vampiro”. Un altro brano dallo stesso giorno:
“Di che cosa mi sento colpevole? Di avere un uomo, di essere felice? Lei ha perduto sia il suo uomo sia la felicità e si è dovuta arrangiare con Warren (il fratello) e con me come sostituti dell’uomo, e con la nostra felicità come sostituto della sua.(…) Lei mi invidia per quello che ho fatto.”
E ancora:
“Stamattina (…) ho letto “Lutto e malinconia” di Freud. Una descrizione pressoché perfetta dei sentimenti e delle ragioni del mio suicidio: il rivolgere su di me un impulso omicida verso mia madre, la metafora del “vampiro che dissangua l’Io” usata da Freud. E’ proprio l’ostacolo che sento tra me e la scrittura: la stretta soffocante di mia madre. (…) Come liberarmi della depressione: rifiutandomi di credere che lei abbia un qualche potere su di me, come le vecchie streghe per le quali si lascia fuori un piatto di latte e miele. Non facile. Come riuscirci? Una cosa che aiuta è rendersi conto delle cose e analizzarle.”
Ma evidentemente questo, tutto questo, non basta:
“Perché mi sono crogiolata per tanto tempo nell’illusione di potermi conquistare il suo amore (la sua approvazione)? Niente di quello che faccio potrà mai cambiarla. Il mio dolore di adesso è perché mi sono resa conto di questa impossibilità.”
L’ansia di prestazione intellettuale creata dalla madre, il bisogno di riconoscimento da parte di lei, il dolore per ‘incolmabile distanza materna insidiano le fondamenta della sua vita e creano una massa di odio: tutto il suo destino sembra infatti iscritto e come imprigionato dentro il desiderio materno. Mentre emerge un sé assassino e le madri sono assimilate a dei piranha, Sylvia si chiede nel Diario:
“Quale potrebbe essere una reazione matura all’odio per mamma? (…) Alla fine tutto l’odio si stempererà dunque in una compassione benevola?”
Una risposta sta nel gesto, il suicidio; un’altra, forse la stessa, nella poesia, Il colore dei tempi:
Soffia un vento contrario,
ronzano stelle maligne
e le mele d’oro
sono tutte marcite.
Neri uccelli di sventura
Vanno su e giù sul ramo:
con un sibilo funesto
s’involano le foglie di Sibilla.
Da nascondigli di arbusti
Escono scheletri giganti;
sul sentiero c’è un groviglio
di belladonna e ortiche.
Nel prato spelacchiato
Dove Kilroy vorrebbe passare
S’annida l’ombra a falce
Della serpe nell’erba.
Avvicinandoci alla casa
per una via traversa
egli sente l’ululato
del lupo davanti alla porta.
Sua moglie e i suoi figli
Penzolano sforacchiati,
c’è una fattura nella culla
e nella pentola morte.
Come scrive Nadia Fusini, “il suo ideale realizzato non la rende felice, risulta falso, posticcio” e la sua intelligenza spettrale e mistica la porta verso una conclusiva, spaventosa crisi mentale e psichica.
“L’uomo felice non scrive poesia, scrive Freud.: E’ sotto la pressione di un dolore indicibile che Dafne si trasforma in albero. Pensate così la trasformazione di Sylvia in poeta”. (dall’Introd. cit)
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Moltissime sarebbero le poesie di Sylvia Plath che dovrebbero essere citate o almeno menzionate qui, da Lady Lazarus a Poesia per un compleanno, da Limite (l’ultima poesia) a Canto del fuoco, da Monologo alle 3 di notte a Lorelei, da Lifting a Totem, cosa impossibile per mancanza di spazio. Per una lettura completa dell’opera di Sylvia Plath si rimanda al bellissimo Meridiano, Opere di Sylvia Plath, Mondadori ed. 2002, a cura di Anna Ravano con un saggio introduttivo di Nadia Fusini.
di Laura Bocci