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Fuga digitale dalla libertà

 

Foto tratta dall'account TW @ChrisGervasoni di Christian Gervasoni

Foto tratta dall’account TW @ChrisGervasoni di Christian Gervasoni

Arrivo con ampio ritardo – come al solito peraltro – sull’argomento, quando, almeno in Italia,  PRISM è stato da tempo soppiantato da IMU. Mi riferisco al caso Snowden, alle intenzionali, sistematiche ed indiscriminate violazioni di privacy della NSA, all’eterno dilemma controllo/libertà nella sua forma tecnologicamente più avanzata. Dopo averli a lungo accantonati, poi “sfogliati”, ho finalmente letto fino in fondo diversi approfondimenti, in particolare quelli di Fabio Chiusi , un vero e proprio  dossier  i commenti di Arianna Ciccone, le riflessioni di Luca De Biase.

“Le cifre sono impressionanti – scrive Chiusi . In un solo giorno, l’NSA può raccogliere 60 milioni di telefonate. Tramite il discusso programma Prism, osservare in tempo reale l’invio di mail e chiamate. E, grazie alla collaborazione con il GCHQ britannico, immagazzinare fino a 21 petabyte (cioè miliardi di byte) di dati al giorno. Ossia «l’equivalente di inviare tutte le informazioni contenute in tutti i libri della British Library 192 volte al giorno».  

Sono rimasto ovviamente sconvolto, come tutti, dall’ampiezza e sistematicità delle violazioni. Ed ancor più allibito dalle reazioni. Dei cittadini americani, che sembra(va)no prender la cosa con flemma piuttosto inglese. Di Obama , che prima di voler ricostruire la fiducia, dovrebbe ammettere di averla persa.  Dei paesi europei che per compiacere il governo USA hanno fatto di tutto per rimuovere i fatti e le proprie emozioni, al punto che Emma Bonino, la prima nostra ministra degli Esteri libertaria e radicale, ha dichiarato “In gioco non c’è solo diritto alla privacy, ma soprattutto un rapporto fiducia tra alleati. E gli Stati Uniti sono da metà del secolo scorso sono il nostro principale alleato”. La Francia è stata l’unica a far inizialmente la voce grossa, salvo doversi poi difendere dall’accusa di aver fatto esattamente lo stesso con i propri cittadini, utilizzando da tempo un “dispositivo di spionaggio su ampia scala delle telecomunicazioni”, simile a quello americano, gestito dalla Direzione generale della sicurezza esterna (DGSE).

La leggenda del santo inquisitore

La leggenda del santo inquisitore

Da Dostoewkij a Twitter

 Saviano  dopo aver retoricamente affermato che il caso Snowden cambierà la storia dell’informazione, ha chiesto (‘nata vota) una regolamentazione della presunta anarchia del web. Il paradosso di una richiesta di ulteriore controllo del web di fronte a palesi violazioni della privacy personale – che Arianna  Ciccone  causticamente evidenzia e puntualmente critica – è però solo apparente.

La libertà, lo sappiamo tutti, è sommo bene, valore irrinunciabile. Ma anche fardello maledettamente pesante, del quale ci libereremmo spesso molto volentieri. “Nulla è per l’uomo piú seducente che la libertà della sua coscienza, ma nulla anche è piú tormentoso” scrive Dostoewkij

Se ripensiamo ai momenti più critici della nostra vita li ritroveremo probabilmente non tanto nelle fasi in cui abbiamo cercato di liberarci da un giogo opprimente (libertà da) quanto piuttosto nelle situazioni in cui abbiamo – o avremmo potuto – in piena libertà dar espressione concreta alla nostre inclinazioni ed alle nostre scelte, insomma realizzare noi stessi (libertà di). È la disarmante ed amara constatazione che molti pazienti – e tutti noi siamo stati almeno una (?) volta pazienti – si ritrovano a fare a giochi ormai conclusi, quando riconoscono che gli impedimenti altrui alla propria volontà altro non erano che la propria paura di vincerli. È la porta del racconto kafkiano Davanti alla legge  rimasta per tutta la vita a nostra disposizione e che noi non abbiamo avuto il coraggio di varcare.

Se questo vale per ognuno di noi, è ancora più vero per la collettività, la società intera. Ce lo ricorda, se ce ne fosse bisogno, la leggenda del grande inquisitore dostoevskiano.

Dice il grande Inquisitore ad un silenzioso Gesù  tornato improvvidamente sulla terra:

“Abbiamo corretto l’opera Tua e l’abbiamo fondata sul miracolo, sul mistero e sull’autorità. E gli uomini si sono rallegrati di essere nuovamente condotti come un gregge e di vedersi infine tolto dal cuore un dono cosí terribile, che aveva loro procurato tanti tormenti”

“Oh, noi li persuaderemo che allora soltanto essi saranno liberi, quando rinunzieranno alla libertà loro in favore nostro e si sottometteranno a noi. Ebbene, avremo ragione, perché ricorderanno a quali orrori di servitú e di turbolenza li conducesse la Tua libertà. La libertà, il libero pensiero e la scienza li condurranno in tali labirinti e li porranno davanti a tali portenti e misteri insolubili, che di essi gli uni, ribelli e furiosi, si distruggeranno da sé, gli altri, ribelli ma deboli si distruggeranno fra loro, mentre i rimanenti, imbelli e infelici, si trascineranno ai nostri piedi e ci grideranno: “Sí, voi avevate ragione, voi soli possedevate il Suo segreto e noi torniamo a voi, salvateci da noi medesimi”.

“Tutti, tutti i piú tormentosi segreti della loro coscienza, li porteranno a noi, e noi risolveremo ogni caso, ed essi avranno nella nostra decisione una fede gioiosa, perché li libererà dal grave fastidio e dal terribile tormento odierno di dovere personalmente e liberamente decidere”.

F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Garzanti, Milano, 1979, vol. I, pagg. 263 e 282

 

Le tragicamente geniali intuizioni di Dostoevskij sembrano trovare il loro aggiornamento e la loro elaborazione “scientifica” nel saggio “Fuga dalla libertà” di E. Fromm.   (di cui è disponibile un’ampia  sintesi a cura di Federica Parri ). Un classico, scritto nel 1941 e nato, come si sa, dal tentativo di spiegare sulla base di concetti psicoanalitici applicati alle dinamiche sociali, la sottomissione, la connivenza o l’adesione della maggioranza della popolazione alle dittature fasciste e naziste della prima metà del secolo scorso.

Ma il saggio è quanto mai attuale proprio perchè individua ed analizza anche altri più subdoli pericoli della società moderna, in cui l’uomo è divenuto sì più indipendente e critico ma anche più isolato e perciò impaurito. E non è certo un caso che quanto più individualista diventa la società tanto più intenso sia lo sviluppo dei social media, nei quali le nostre solitudini si uniscono, come rileva con il suo elegante cinismo

@NeinQuarterly: Before twitter there was being alone. After twitter there was being alone. Together.

Forse è (anche) questa la cifra per interpretare la nostra folle corsa sull’ottovolante dei social media, sul quale incuranti del pericolo di sorveglianza, siamo disposti a condividere/mettere in mostra tutto di noi (non solo dati personali ma desideri, passioni, affetti, tic, nevrosi, malattie, ferie, parti più o meno attraenti/ripugnanti del nostro corpo, dei nostri familiari senza risparmiare nemmeno i nostri animali domestici… Thierry incluso… ). Forse non siamo guidati in questo solo dal  narcisistico voyeurismo di cui sempre più frequentemente ci lamentiamo – scorgendolo naturalmente solo nell’altro, vicino, collega o follower che sia, la cui bisaccia dei difetti sta, come si sa, sulla parte anteriore della nostra spalla

Ma tale desiderio, bisogno, talvolta mania di condivisione – che presto immagino troverà posto e nomenclatura anche nel sempre più ampio e generoso DSM (manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali)   , ha forse a che fare più di quanto vogliamo amnettere con le nostre paure di solitudine e di solitaria impotenza, nonchè con il nostro insopprimibile bisogno di legame, di attachment, direbbe Bowlby. Ragion per cui ci sforziamo di essere – e sopratutto di apparire – i più originali, rivoluzionari, indipendenti spiriti liberi  tuitteri del mondo ma quando poi il defollow di persone significative ci coglie, ritorniamo i bambini e le bambine che han paura di venir abbandonati. L’espressione delle angosce e le conseguenti recriminazioni assumono forme squisitamente razionali ma i sentimenti di abbandono si ripetono sostanzialmente uguali a sè stessi nella difficile altalena bowlbyana tra attaccamento ed esplorazione, desiderio di sicurezza e di libertà.

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Paura della solitudine e fuga dalla libertà

La nostra (paura della) solitudine viene d’altro canto da lontano e fa parte del nostro cammino evolutivo, individuale e collettivo. Il nostro primo atto di disobbedienza ci è costato la perdita del paradiso – il primo giardino –  e del legame armonioso col Padre ma è stato l’avvio  della nostra consapevole autonomia (“L’atto di disobbedienza, in quanto atto di libertà, è l’inizio della ragione” E. Fromm, op. cit.).

Il nostro percorso di individuazione personale e sociale porta con sè la rottura ed il superamento dei legami primari, con i nostri genitori, le nostre tradizioni, i nostri sistemi di riferimento ed orientamento. Ne scaturisce una – inevitabile – condizione di solitudine, impotenza, smarrimento, acuita oggi dal tramonto, dall’evaporazione dei padri (Recalcati) – questi poveri padri, pure evaporati… Il vuoto che in tal modo si crea tra noi e il mondo, non può non farci paura, suscita anzi in noi un’angoscia che è non a caso cifra della modernità.

Per sfuggire a tale intollerabile condizione di ansietà abbiamo a detta di Fromm due vie. Per una si può progredire  alla “libertà positiva” recuperare cioè il rapporto con il mondo attraverso le principali componenti della spontaneità: l’amore come unione con gli altri nel mantenimento della nostra individualità ed il lavoro che ci unisce, nella creatività, alla natura.

L’altra è una via di fuga, per eliminare il vuoto che si frappone tra noi e il mondo, per evitare il panico e consentirci  di sopravvivere senza tuttavia risolvere il conflitto di fondo.

Fromm analizza anche i diversi meccanismi di fuga che spaziano dall’autoritarismo, alla distruttività al “conformismo da automi

È naturalmente tale “conformismo ossessivo” a riguardarci più da vicino. Un conformismo incapace di pensiero originale, indotto e favorito da una società in cui l’autorità viene sostituita dal senso comune, dall’opinione pubblica, dal successo e dal prestigio sociale (sia esso misurato in termini finanziari o di n. di follower). A questo punto l’individuo si trova in un insolubile dilemma. Adattandosi al ruolo che gli viene richiesto egli non percepisce la paura della solitudine e dell’impotenza ma divenendo solo riflesso delle aspettative altrui è ossessionato dal dubbio di aver tradito e perso sè stesso, e si sente debole ed inferiore.

“L’incapacità di agire spontaneamente, di esprimere quel che veramente si sente e si pensa, è la conseguente necessità di presentare uno pseudo io agli altri e a se stessi, sono la radice del sentimento di inferiorità e di debolezza” (E. Fromm, op. cit.)

Solo un consapevole atteggiamento psicologico interiore e adeguate condizioni socio-economiche e politiche esterne, consentono lo sviluppo del processo di individuazione che è stato anche l’obiettivo del pensiero occidentale moderno dal Rinascimento in poi.

In caso contrario la libertà diviene appunto un insopportabile fardello:

“However, if the economic, social and political conditions… do not offer a basis for the realization of individuality in the sense just mentioned, while at the same time people have lost those ties which gave them security, this lag makes freedom an unbearable burden. It then becomes identical with doubt, with a kind of life which lacks meaning and direction. Powerful tendencies arise to escape from this kind of freedom into submission or some kind of relationship to man and the world which promises relief from uncertainty, even if it deprives the individual of his freedom.” (Erich Fromm, Escape from Freedom [N.Y.: Rinehart, 1941]

foto tratta da malattieautoimmuni.org

foto tratta da malattieautoimmuni.org

Ipersorveglianza come malattia auto-immune

E qui torniamo a noi, ed alla forma attuale del conflitto controllo (potere)/libertà, che Luca De Biase inquadra così

“La massa omogeneizzante è stata in passato una forma di spersonalizzazione; oggi lo è la sorveglianza eccessiva. La rete e l’accumulazione di dati personali o comunque di dati che riescono a ricostruire i comportamenti delle persone provocando conseguenze sulla loro vita è una forma di sorveglianza”.

E tale forma di sorveglianza ha raggiunto picchi incredibili, ai limiti, anzi decisamente oltre i limiti della paranoia, se è vero che SNA spia(va) gli stessi governi alleati.

George  Dyson, storico della scienza, citato da De Biase, utilizza genialmente, per caratterizzare la vicenda, la metafora della malattia auto-immune.

“The current security hysteria has all the indicators of an autoimmune disease–when the organism starts reacting against itself”

Tanto da immaginare, prosegue De Biase, che “quello che fa la Nsa è probabilmente inutile. Ma costruisce un sistema di potere. Al quale la Nsa non vorrà rinunciare. E quindi ci dirà sempre che è un lavoro importantissimo”.

Inutile e dannoso. Inutile perchè questo enorme apparato di controllo – una sorta di sistema immunitario sociale – anzichè mettere sotto controllo i pochi pericolosi antigeni estranei passa al setaccio tutti i nostri innocui. Dannoso perchè oltre a violare la privacy ed i nostri diritti personali semina paranoica diffidenza dove servirebbe consapevole e matura fiducia tra cittadini ed autorità.

 

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Che fare?

Ovviamente non lo so ma trovo i suggerimenti di De Biase stimolanti e decisivi perchè mi sembra aprano a steaordinari sviluppi

– “La consapevolezza di questa dinamica è la prima difesa. Ma non basta”.

– “Una nuova educazione adatta a un’epoca nella quale l’intelligenza collettiva funziona se e solo se ciascuno è parte attiva della vita sociale e non passivo elemento fungibile di una massa.”

– ” Inoltre, si qualifica un percorso tutto da sviluppare per il quale il diritto alla privacy non è soltanto una barriera in difesa dell’io ma anche un equilibrio del potere dell’io nei confronti della collettività. Le informazioni degli individui dovrebbero poter pareggiare quelle delle piattaforme. C’è bisogno anche di nuove piattaforme, per questo. Capaci di avere conseguenze educative, nel senso descritto: per ricostruire nuovi e più attivi individui, finalmente capaci di una migliore socializzazione”

E mi permetto di chiudere con un’esperienza che è anche una speranza.

Serena Danna riporta nel suo articolo odierno su la Lettura del Corriere esperienze di blog e social media che riescono a “creare varchi di intimità” e a condividere con migliaia di persone in pieno rispetto ed empatia situazioni esistenziali e cliniche drammatiche. Serena Danna cita Michele Nealon-Woods, presidente della Chicago School of Professional Psychology:

«L’essere umano è portato a condividere le emozioni, particolarmente quelle negative, con gli altri. È molto positivo fare esperienza del nostro dolore, comunicarlo e condividerlo. Grazie ai social media, “gli altri” non sono più solo familiari e amici ma anche gli sconosciuti».

Attraverso il racconto di una storia «vera», – prosegue Serena Danna – i follower su Twitter, Instagram o Pinterest, gli «amici» su Facebook, diventano partecipi di un’emozione che, pur restando personale, si fa collettiva. Insieme ai confini tra pubblico e privato, si ridisegnano quelli tra conosciuto e sconosciuto”.

Forse questo è (anche) il futuro dei social media e una possibile cura per la malattia auto-immune dell’ipersorveglianza

Giuliano Castigliego

 

 

 

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