I cittadini di un ameno paese svizzero, Bremgarten, hanno vietato l’accesso ai luoghi pubblici, tra cui la piscina comunale, agli “asilanti”, gli stranieri richiedenti l’asilo. In Italia è vietato agli immigrati clandestini uscire dai Cie (Centri di identificazione ed espulsione), sigla che identifica meglio d’ogni altra cosa il senso della politica d’accoglienza italiana verso i profughi. Molti dei rifugiati sfollati dalla Siria vengono ospitati o trattenuti – ambivalenza verbale che tradisce quella psicologica – in campi profughi dove vivono, come riferisce l’ UNICEF stesso “in condizioni sanitarie, igieniche e mediche precarie” in mancanza di ” vestiti, coperte, cibo, acqua potabile e farmaci”.
Guardare in faccia chi soffre mentre cerca di scappare dalla povertà, dalla miseria, dalla dittatura, dalla morte, fa paura ovunque, anche se le misure per allontanare dallo sguardo la sofferenza altrui possono essere più o meno raffinate, ipocrite, civili.
Nel mio lavoro ho quotidianamente a che fare, come tanti altri del resto, con un altro tipo, certo molto meno esistenziale ma non per questo meno tragico, di sofferenza. È il dolore di chi cerca di sfuggire nel delirio o nella dipendenza a un’insostenibile realtà, soprattutto interiore, la rabbia, la disperazione o la rassegnazione di chi ha perso cose e persone care, l’ansia di chi teme di perderle, le ossessioni di chi ha paura della possibilità, il disorientamento di chi ha smarrito un senso logorato dal quotidiano, l’angoscia di coloro per i quali il cibo, il sonno, additittura il sesso son divenuti incubi.
Se con i modesti strumenti psichiatrici e psicoterapeutici, empaticamente declinati secondo un’umanità che è di tutti noi, posso essere d’aiuto o meglio posso mettere in condizione il/la paziente di aiutarsi, mi è facile, anzi piacevolmente (certo anche narcisisticamente) gratificante guardare gli occhi riconoscenti dell’altro/a. Ma quando nulla aiuta, quando il dolore non lascia nè tregua nè speranza e l’impotenza vince, su tutto e su tutti, com’è pesante anche un solo fuggevole sguardo su quella sofferenza! Qualsiasi cosa è preferibile alla maledetta impotenza, che tutti noi sperimentiamo quando vediamo il dolore attanagliare senza speranza i nostri cari. Mai come in quei momenti è forte la tentazione della rabbia e del rabbioso agire, tanto più cieco quanto più evidente è l’ impotenza.
Certo i capi di stato e di governo che in questi giorni meditano ritorsioni militari sul regime siriano non hanno compiti terapeutici ed hanno alle loro spalle un sufficiente training di cinismo per saper tener debitamente a bada la sofferenza.
Ma all’impotenza temo siano molto sensibili, anche loro, orgogliosi leaders delle potenze mondiali. E non vorrei che da quella impotenza si lasciassero abbagliare o addirittura trascinare.
Difficile certo non farlo di fronte a quegli spettri bianchi ordinatamente disposti in fila da una morte atroce. L’orrore ed il ribrezzo si fanno pianto e vomito. La vendetta una liberazione dall’impotenza che ci paralizza davanti a quei lenzuoli bianchi. Giusta aggiunge la morale, che la trasforma in meritata e doverosa punizione. La forza sia al servizio della giusta causa, le bombe intelligenti, si dice. Il dilemma è risolto, i nostri sensi di colpa sedati. Fino a quando vedremo i lenzuoli bianchi avvolgere altri bambini, devastati dalle bombe giuste.
Certo anche volgere lo sguardo altrove, attendere cinicamente che le fazioni si distruggano tra loro è altrettanto colpevole omissione.
L’impotenza è anche questo, un insolubile dilemma tra colpe diverse ma altrettanto gravi.
Se però dalle bombe non possiamo aspettarci altro che distruzioni e morti – più o meno selezionati – , aiutare le migliaia di profughi, prendersi cura di loro, dar loro asilo (anche provvisorio) nei nostri paesi – come chiedono i radicali e sembra voglia far la Svizzera – sarebbe testimonianza concreta di umana solidarietà, segno di una speranza più forte della violenza.
Giuliano Castigliego
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