Torno sul tema dell’uccisione metaforica del padre dopo la pubblicazione del manifesto della #generazioneperduta – seguita da numerosi interessanti commenti, tra cui quello di Irene Tinagli – ed il post di Luca De Biase , proteso, come sempre del resto, a riflettere sulle possibili scelte future che aspettano al varco noi italiani.
Anche a me, come a Massimiliano Gallo , è venuto spontaneo il collegamento tra la rivendicazione di responsabilità della generazione perduta e l’uccisione metaforica dei padri. Se è vero però che a nessun individuo ed a nessuna generazione è risparmiato di uccidere psicologicamente i padri, nella società civile, che ha preso il posto dell’orda primitiva, vi dovrebbero essere meccanismi sociali tal da favorire appunto la sostituzione dei padri da parte dei figli secondo regole e convenzioni sociali riconosciute ed incruente. Proprio tali regole sono state divelte e distorte soprattutto in Italia per cui ci troviamo nella paradossale situazione in cui i padri che hanno tolto spazio sociale ed economico alla nuova generazione sono anche quelli che l’aiutano finanziariamente, forse, oltre che per obiettiva necessità, anche per malcelato senso di colpa.
Ma lascio ad altri, più ferrati e competenti di me, analisi sociologiche e politiche. Ritorno aimiei più familiari territori, anzi proprio alla mia famiglia ed alla mia esperienza, per raccontare di come ho metaforicamente ucciso mio padre. Non che sia storia esemplare. Tutt’altro, essendo io “non proprio un guerrigliero”. Ma qualcuno dovrà pure cominciare a raccontare come ha fatto, anche se ci ha messo un po’ di tempo e magari non gli è venuto tanto bene. Anche perché presto succederà a me, visto che sono un quasi cinquantunenne , anche se molto tardivo (o ritardato).
Se dovessi riassumerlo, twittarlo, direi che mi sono lasciato alle spalle mio padre con la fuga (“il partito dei più deboli”, come diceva il fuggiasco poeta Campana), oltre confine, per sicurezza, addirittura dietro le (sette) montagne, come si dice qui in svizzera-tedesca. Ma andiamo con ordine.
Il primo trasferimento della famiglia paterna l’aveva fatto in verità mio nonno, guarda caso anche lui Giuliano e medico, che, agli inizi del ‘900 si era trasferito dalla sua pugliese e marittima Manfredonia (FG) ad un paesino della bassa bresciana, Comezzano, dove aveva vinto una condotta medica. Lì nacque mio padre, che rimasto a due anni orfano della madre – morta per spagnola mentre mio nonno era in guerra (prima mondiale) – dopo le elementari in paese, entrò presto in collegio – e la disciplina del collegio gli entrò nelle ossa – e si trasferì poi a Bologna per la laurea in medicina. Gli fu risparmiata la (seconda)guerra perché, per una grave infezione, gli fu asportato un rene, ma da ufficiale medico in zona repubblichina non seppe o non potè evitare una certa tolleranza al fascismo. A Lograto (Bs) nel dopoguerra divenne medico condotto e lì si svolse la sua intera vita familiare e professionale, segnata da una incondizionata dedizione ai pazienti – che lo ricordano davvero con grande affetto. Inutile dire che l’incondizionata dedizione professionale condizionò la sua vita sociale e familiare. Mia madre ha sinceramente sempre detto e continua a ripetere che è stato un marito straordinario, obiettivamente credo sia stato straordinariamente generoso ma tutt’altro che facile con quella sua burbera impulsività e la sua ossessiva coscienziosità. È stato sicuramente un padre estremamente affettuoso, autorevole e spesso autoritario, pronto alle arrabbiature che precedevano di un soffio le scuse. Il colloquio non era proprio il suo forte e, con buona pace della mia professione, non lo è neanche per me. Parlava al meglio con gli occhi, oltre che con gli abbracci, e tramite gli occhi si sono prevalentemente svolti i nostri incontri ed i nostri scontri.
Ci sono stati certo anche gli scontri verbali e le battaglie, ma da queste mi sono fin troppevolte, più o meno coscientemente, ritirato. Quando si trattava di scegliere la facoltà dopo il classico, io volevo lettere o filosofia e lui medicina. Si sa come è andata a finire. Alla ricerca di un padre in psichiatria, ho lasciato l’allora organicista Parma – dove avevo cominciato a studiare – e son andato alla Cattedra psichiatrico-umanistica del Prof Ermentini a Brescia, con ritorno allo stantio nido logratese. Sono stati gli anni dei confronti tanto più aspri quanto più silenziosi con mio padre, consumati tra fulminanti occhiate e smorfie d’insofferenza. I conflitti si sono attenuati ma non risolti quando sono andato a stare a Brescia con l’allora mia ragazza ed ora moglie, svizzera. Solo quando alla veneranda età di 33 anni, ho lasciato l’Italia per trasferirmi con mia moglie, psicologa, in Svizzera, a fare il medico assistente psichiatra in tedesco, anzi in schwizerdütch, il dialetto svizzero, nella Clinica psichiatrica cantonale – situata in quell’ombelico del mondo che si chiama Cazis – ho cominciato a non sentire più su di me l’ombra di mio padre. Che è invece ovviamente e giustamente rimasta, ma si è trasformata. Così che ho potuto tornare ad amarlo in un altro ruolo ed in un nuovo e più libero rapporto in cui anch’io potevo prendermi cura di lui.
Tante altre mie ombre (ricordo sull’omonimo tema dell’ombra paterna la bellissima serie di incontri sull’alpe di Siusi curata da Marchioro ) son naturalmente rimaste e continuano in parte a rimanere, prima tra tutte quella di “autoriduttore” che il rettore del mio liceo, il compianto Prof Cavalleri, grande conoscitore dell’animo umano oltre che delle lingue antiche, mi aveva affibbiato utilizzando l’espressione di rivolta del tempo per indicare i miei perenni sensi di insufficienza ed inadeguatezza. Ho cercato di rintuzzarli nella mia analisi, indubbiamente all’insegna del padre, quello d’ analisi e quello reale, che è morto poco dopo che l’avevo avviata. Un’iniezione di cortisone, il distacco della bombola d’ossigeno e non molto di più sono stati i pochi gesti medici che ho compiuto su di lui dopo che in fantasie, freudianamente aggressive e “autoriduttive” insieme, mi ero tante volte immaginato incapace di prestargli le cure con quella prontezza ed abilità che lui da medico generico padroneggiava. Per non lasciarlo andare troppo alla svelta, ho portato nella mia tasca per mesi interi il suo apparecchio acustico, simbolo delle nostre incomprensioni, fatte delle mie parole bofonchiate, di ripetizioni irate e del suo orgoglio ferito.
Mi rivedo ora nel suo ruolo con mio figlio quattordicenne, di cui non potrei essere più orgoglioso, per il suo affetto generoso e fine, la sua simpatica apertura, le sue capacità intellettuali e manuali insieme. Così simile e così diverso da me. Ma per lo stesso motivo il conflitto è – per fortuna – già avviato, e prende ancora una volte le forme dell’incomprensione acustica – anch’io sento sempre peggio – che copre quella generazionale. Lui sussurra veloce e si scoccia di ripetere ed io di dover chiedere e di non capire, non tanto le parole quanto piuttosto la sua volontà e la sua mentalità, sempre più indipendenti ed estranee alle mie. Lo sento comunque più battagliero. Forse – spero – non avrà bisogno di un percorso così lungo e tortuoso per liberarsi della mia ombra.
Giuliano Castigliego
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