La psicoterapia è usurante. Non per il paziente – si spera – che dovrebbe trarne sollievo e forza ma, a lungo andare, per il terapeuta, che nel corpo a corpo con la sofferenza altrui (e propria) corre sempre il rischio di infrangersi sugli scogli: a Scilla su quelli dell’eccesso di vicinanza e della collusione con un paziente che a lui s’aggrappa per non affogare; a Cariddi su quelli dell’indifferente distanza dall’altro – e da sé stesso. Non a caso il burn out – ne so qualcosa – e altri disturbi psichici dalla depressione fino al suicidio sono così frequenti tra i medici ( Il tasso di suicidio tra lquesti ultimi sarebbe secondo vecchi studi * più del doppio di quello della popolazione normale, 28-40 casi su 100.000 abitanti rispetto a quello medio di 12,3 su 100.000) ed ancor più tra gli psichiatri, e in altre professioni sociali. Gravati dal peso dell’aspettativa sociale e personale di riportare salute ed infondere benessere negli altri, medici e terapeuti, trascurano talvolta sé stessi e possono crollare sotto quel peso, come ci ricorda un articolo non recente ma sempre attuale dal sintomatico titolo “Physicians Are Not Invincible: Rates of Psychosocial Problems Among Physicians”
Altre volte per sottrarsi a questi pericoli si finisce di rifugiarsi nei tecnicismi, se non nell’indifferenza o addirittura nel cinismo.
In questo contesto l’atteggiamento di Papa Francesco mi sembra quanto mai terapeutico. Non solo perché rifiuta l’idealizzazione del proprio ruolo e rivendica la propria limitata umanità citando – per una volta nella Chiesa benevolmente -Freud:” Sigmund Freud diceva, se non sbaglio, che in ogni idealizzazione c’è un’aggressione”. (dalla recente intervista del Papa a Ferruccio de Bortoli, Corriere della Sera). Ma anche e soprattutto perché l’uomo Bergoglio trasmette con immediatezza autentica e credibile il rispetto e soprattutto l’accettazione dell’altro (e di sè) indipendentemente dal genere e dallo status sociale, politico, sessuale etc. di chi gli sta davanti. Lo evidenzia molto bene lo splendido articolo di uno psichiatra americano, ebreo Lloyd I. Sederer , che ricorda le parole del Papa “Chi sono io per giudicare?” ed i suoi gesti di sincera umiltà. E prosegue:
“The Pope’s message, which I take as a Jew, is non-sectarian. As a psychiatrist, I think his message resonates with what is becoming a prevailing ethos of good mental health care — a belief that everyone has promise, can recover and rebuild from life’s misfortunes and should be able to have what we all want . . . namely the warmth of relationships, the safety of home, the experience of community and the dignity of being able to contribute to society.”
Scrive ancora Sederer:”
Francis’ message is clear: as people and institutions, we need to be welcoming (not judging); not defer to the dogma of powerful, hierarchical authorities (“Excessive centralization… complicates,” he said); serve those in need (the wounded); and practice what we preach”.
Proprio il deliberato e consapevole rifiuto di giudizi e pregiudizi, moralismi e regole tanto nobili da essere inumane è così liberatorio e invitante, nel rapporto del Papa con il prossimo, così come in ogni altro incontro, terapeutico o meno, tra uomini gravati dalle sofferenze. Ma saper ascoltare, accettare, mettersi emozionalmente in gioco e aiutare far riflettere costa fatica. Per questo sono così necessarie, accanto alla formazione approfondita, all’aggiornamento continuo, supervisioni e intervisioni.
La sofferenza infatti ci spaventa inducendoci spesso a ferire chi ce la porta tropo vicino con armi socialmente accettate ma non meno affilate o a fuggire, abbandonando chi ci sta davanti.
“L’amorevolezza – dicono Phillips e Taylor, autori del bellissimo “Elogio della gentilezza” – ci apre al mondo (e ai mondi) di altre persone secondo modalità che desideriamo ardentemente ma di cui abbiamo anche terrore” poiché “la vulnerabilità..è la nostra eredità biologica” E aggiungono “prendersi carico della vulnerabilità degli altri…comporta l’essere capaci di prendersi carico della propria”. È il compito immane, votato ovviamente alla delusione, di una professione, per definizione nevrotica, come quella psicoterapeutica. D’altro canto il nostro stesso desiderio di farcela nella e con la vita non è una, necessaria, utopia? Nell’affollato e solitario cammino per raggiungerla è bello riposarsi a turno in rifugi di calorosa tolleranza nella vita quotidiana – e di calorosa astinenza quando siamo così bisognosi da divenire pazienti. Ci aiuta per un momento ad abbassare le nostre difese e a non vergognarci dei nostri ridicoli limiti. Giusto il tempo per un incontro.
Giuliano Castigliego
* Council on Scientific Affairs: Results and implications of the AMA-APA Physician Mortality Project, Stage II. JAMA 1987; 257:2949-2953
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